articolo di Gianfranco Schialvino – Ezio Gribaudo – Le sculture in Bronzo –
EZIO GRIBAUDO
Le sculture in bronzo
La scultura, insegnano nelle Accademie, si fa in mettere e in levare.
Il marmo che l’artista scava e rompe nasconde l’anima della figura, che poco alla volta vedrà la luce assumendo la forma trovata dal suo demiurgo. L’argilla vedrà invece questa immagine comporsi a brani, impastati e aggiunti per la conquista della sua compiutezza. Così almeno è stato fino a un secolo fa, fintanto che le finzioni di Duchamp non trasformarono un pissoir in una fountain e la metamorfosi della materia non si trasferì in quella della parola.
L’arte, prima di quel momento, era stata prerogativa di pochi. Usata dalla religione “ad maiorem gloriam Dei”, senza troppe sottigliezze nel distinguere e separare Dio e mammona; dal potere e dalla politica, a esaltazione del principe di turno messo a sedere sul trono del privilegio; e dalla borghesia più grassa per sfoggiare il posto conquistato e raggiunto nella società. Il popolo era costretto ad accedervi: doveva entrare nei templi (furono poi le chiese) per obbedire agli dei inventati dagli uomini; imparare nelle piazze le nuove fattezze dei governanti; distinguere sulle insegne i simboli del comando.
Finché qualche idea radicò forte: «La cultura è organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di scienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri» (A. Gramsci, Il grido del popolo, 29.1.1916) e anche l’arte diventò una sete implacabile per chi, improvvisamente, aveva capito che l’essere uomo significava aver bisogno oltre che di cibo anche di sapere, e che l’essere diventato – una stagione, una rivoluzione o una guerra dopo l’altra non importa – cittadino libero, gli avrebbe garantito la possibilità di soddisfare queste necessità. Tutti sazi, tutti uguali (diritti e doveri, per carità!), tutti contenti.
L’arte figurativa, importantissima branca della cultura – paradossalmente oggi tornata indispensabile come quando pochi sapevano leggere ma tutti vedere -, inizia però in quel momento a trasfigurarsi in un contenitore sfondato che raccoglie tutte le istanze, le pretese, le prevaricazioni di un’umana demagogia che contagia e si autodistrugge. La scultura si è trasformata in accumulo di oggetti: veicolo di testimonianza, disturbo, dimostrazione.
Niente è sempre positivo, anche la perfezione si deteriora diventando maniera. E neppure tutto può essere negativo, la bellezza di Lucifero non viene deturpata dalle fiamme dell’inferno.
Il secondo dopoguerra spazza di colpo, nell’arte almeno, idee preconcette e memorie generazionali, rispetti farisaici e forme stereotipe. Offre orizzonti affollati di utopie, ideologie spesso tra loro contrastanti ma libere, tracce e progetti sperimentati e ancora inesplorati, soprattutto scevri da barriere. Si appoggia su basi progressive e riformiste, costruttivismo e geometria, razionalità e logica, simbolo e inconscio. Accetta infine l’alternativa dell’ambiguità, la commistione dei linguaggi, le innovazioni della tecnica: al servizio di una creatività che non dipende più esclusivamente dalla manualità e di una mimesi che si può costruire artificialmente con le macchine che favoriscono la serialità dell’immagine.
È in questo ambito e in questo ambiente che cresce, alimenta il suo desiderio di apprendere, costruisce il proprio viatico culturale e infine appare, improvviso e già mentalmente forgiato, Ezio Gribaudo.
Con tre – ovviamente individuati e confermati all’indagine posteriore – passaggi fondamentali: la frequentazione delle lezioni di arti grafiche all’istituto De Amicis, dove apprende le tecniche dell’incisione e della stampa; l’esperienza alla Nebiolo, dove entra in contatto con la tridimensionalità del carattere tipografico; la conoscenza delle teorie del vuoto di Giansone, che conosce alla “Libera Accademia” e che influenzarono anche – ma per tutti e due gli allievi quanto consapevolmente o soltanto invece come forte messaggio subliminale non si potrà mai sapere -, anche Armando Testa.
A tirare i fili di questa lunga e sparpagliata premessa si può distinguere oggi chiaramente un binario definito e lineare, una linea netta e nitida attorno cui, ora retta ora sinusoidale, si sviluppa e si compone l’arte di Gribaudo. Una treccia formata da tre elementi interdipendenti e autoportanti: la raccolta (che parte dall’indagine e termina con la scelta), la composizione (che trova forma nella realizzazione della nuova opera) e la sintesi (che la completa concettualmente nella trasmutazione e conseguente ridefinizione dei significati).
Tutto questo indipendentemente dai linguaggi usati: pittura, scultura, incisione, installazione ecc. fino al comportamentismo, alla guida dell’aspetto relazionale, della dialettica interna (Gribaudo e l’arte) ed esterna (Gribaudo e gli artisti), sempre presente nell’opera attraverso l’omaggio dichiarato e quello rielaborato, o inglobato.
Un ulteriore passo nell’indagine porta all’individuazione di una esasperata coerenza, addirittura una tautologia espressiva, con la conferma dell’intuizione di Enrico Crispolti quando affermava che «Gribaudo è preso dal fascino della materia […] sembra rivendicare i diritti della materia sull’immagine […] entro una concretezza di materia naturale, autentica, vera».
Che inizia dal segno, condizionato dal gesto che imprime il carattere di piombo e il flano sulla carta morbida o sul legno o sul gesso; che incolla la velina e il cartone e la lamina; che trafora il legno ed il polistirolo; che scava col fuoco. Nell’azione della transustanziazione delle materie: il legno (o cera o polimero) che diventa bronzo, rigenerandosi nel mito dell’araba fenice.
Perché il filo d’Arianna che lega le oche del barone Gribaudo è la tridimensionalità.
Che parte da lontano – l’amore per i tipi ordinati sul compositoio, il “numerus, mensura, pondus” adolescenziale e mai dimenticato – e ti segna inconsapevolmente e ti guida, t’ispira e ti protegge, rifugio e spinta.
Che trionfa alla Biennale, era il 1966, e lo proietta nell’universo dei potenti, i prediletti destinati a segnare un’epoca con un’idea. Un’intuizione geniale tanto ovvia quanto impossibile (un po’ come l’uovo di Colombo e la mela di Newton).
Che prosegue nei logogrifi e nei legni di tiglio, e recita le trame dei teatri della memoria.
Che si sublima nel bronzo.
Una materia pesante, questa, programmata ed ottenuta con ferma volontà e nella convinzione che i miracoli, se vi si crede e li si vuole, possono reiterarsi.
Gribaudo artista lo sa, ed agisce con algida sicurezza.
Come con i tipografi comandati dal colonnello Domenico Canonica della Pozzo, così con gli operai delle Fonderie Limone di Moncalieri il suo approccio è a tenaglia: da un lato l’orgoglio di permettere loro di dimostrare la propria abilità, quella capacità professionale che al momento dell’assunzione in fabbrica e al passaggio di categoria prendeva forma nel manufatto di prova, chiamato non a caso caplavùr, che significa fatto bene, con sapienza, con arte; dall’altro l’ambizione di partecipare all’arte vera, quella che il “professore”, come loro lo chiamavano, avrebbe portato, con un pezzo della loro anima dentro, fuori nel mondo.
E dal professore – era accaduto anche alla Pozzo – dalla sua sicurezza, dalla sua generosità istintiva e sincera, dalla capacità di creare in loco, di intuire, di risolvere le situazioni, di agire sopra le righe superando le barriere delle norme e delle convenzioni (naturale in un artista, eretico in una fabbrica), vengono affascinati.
Dentro i bagni di gesso refrattario, in cui veniva immersa secondo le buone regole del fonditore la cera per creare la “camicia”, la forma in cui versare il metallo fluido, gli lasciano gettare di tutto: casse tipografiche, sagome di polistirolo, flani, legni traforati e graffiati, tavole modellate a scalpello, profili di pesci e di foglie, re e regine, marionette e danzatori, geroglifici e logogrifi, impronte leggere che entrando nelle cappe di fusione venivano sublimate nel martirio del fuoco sotto il getto del bronzo liquefatto, rendendo l’anima con sibili e sospiri dalle canne degli sfiatatoi.
Vedere la sua prima opera grezza uscire dall’impasto di creta, nera di carbone e irta di canalette, coronata dall’imbuto dell’eccesso del metallo rappreso, trattenuta dalle stesse catene che avevano trasportato in altri tempi le corazze dei carri armati, doveva aver fatto a Gribaudo l’effetto di un arrosto bruciacchiato. Ma, a differenza del dottor Victor – che cacciò lontano da sé il suo moderno Prometeo mosso a vita dal lampo della folgore -, la fece ripulire, limare e lucidare, fino a renderla consona al suo progetto: una successione di pieni e di vuoti, di superfici brillanti e di intagli scabri, di quinte chiuse e di simboli quotidiani.
La scelta di fondere soltanto esemplari unici è stata importante così come la decisione di battezzarli tutti con la stessa parola: “Scultura”.
Gribaudo lavorò alla Limone per tre anni, dal 1973 al 1975 realizzando lì tutte le sue sculture. L’unica fusa qualche tempo dopo, altrove, forse non gli fece riprovare le stesse emozioni perché non ne tentò ancora.
Queste opere bronzee, a conti fatti, sono quindi coeve. Eppure non si possono intendere allo stesso modo, pesare con la stessa moneta.
Potrebbero appartenere in effetti a tre differenti aspetti creativi.
Quello del furore – le casse tipografiche, le stanze dei teatrini, le sagome degli animali e delle cose – è un momento caratterizzato dall’entusiasmo della sperimentazione che prevale sul progetto, prevaricandolo tuttavia con quei favori che l’artista ottiene dal fato rare volte soltanto, quando ha l’animo scarruffato dalla grazia della creazione. Sono da accostare al Gribaudo pittore, erede di impulsi espressionisti, latore di pennellate grasse, di segni scuri a margine delle finte arabescature monocrome.
C’è poi la processione delle grandi figure, più pensata, nobile e conseguentemente superba, rigorosa nel sussiego della ricercata eleganza letteraria, ufficiale e intellettuale, consona al logogrifo di seconda generazione, quello pensato dopo il titolo accademico, progettato per la pagina sulla Treccani, dove la mente ha la meglio sul cuore.
Infine le piramidi, il capolavoro. La stele di Rosetta del sapere (gribaudiano e gribaudesco). Il codice per entrare nella cassaforte delle sue trattenute (troppo?) emozioni. La summa di un linguaggio raro e sofisticato, prezioso e raffinato, aulico e ieratico, sacro, sacerdotale, alessandrino.
Come egli stesso è: magnae virtutes, nec minora vitia.
Come è stato nel deserto Horus “il Lontano”.
Per tanti il dio falco che vola alto nel cielo.
Per pochi, per gli eletti soltanto, il bambino innocente col dito davanti alla bocca che invita al mistero attraverso il silenzio.
Gianfranco Schialvino