Andreina Griseri – Ezio Gribaudo il peso del concreto – 1968
Abituati ai grandi manifesti con cui la poesia figurativa ci documenta giorno per giorno le molte ripercussioni della vita (attingendo al formato op e agli slogans pubblicitari che ormai scottano come versi-liberi), i bianchi di Ezio Gribaudo impressionano per l’opposta versione, non casuale. Anche se egli afferma di essere pronto, disponibile, spontaneo a rompicollo. Né si può dubitarne. Forse per questo nel risultato egli non cerca una bellezza più o meno astratta, piuttosto un momento che scatta, intenso e fragile. I questo senso il disimpegno di Gribaudo è un punto di arrivo e intende far piazza pulita di molte conquiste del linguaggio come dei contenuti-base. È specificato con mezzi nuovi, magari sfogliando appunti di viaggio, margini di valenza per ricordi che poi sono affidati a unimpronta della luce; residuo organico sensibile, segno che si scopre fortemente automatico, organizzato a prima, in tutta corporeità, e unicamente per la percezione. Rivaluta dall’interno un procedimento (più che grafico, tecnologico) che al solito si desidera virtuosistico. Quì è invece scopertamente denunciato il limite ultimo, ultra-artificiale, a cui egli lavora, dominando o fingendosi dominato dal meccanismo. E su questo punto ci ha avvertito per primo Barilli. Oggetto da percepirsi, non solo impronta-involucro suggestivo, come potrebbe apparire dagli ultimi tagli, la serie dei Logogrifi del 1967 (ispirati a fossili alternati alle madrepore, foglie cuneiformi e diaspori). Un rapporto dinamico di relazioni, nella pagina esattissima, a filo ancora della sensibilita, sembra derivare, dalle matrici dei fumetti di Linus, portate fuori di ogni contesto narrativo, quelle di Charles Schulz e di Frank Dickens, che organizzate diventano appunto esatte, lucide fino alla tensione.